Inter: Orrico, il filosofo della gabbia, un panettone indigesto

di Mario Spolverini, pubblicato il: 16/10/2019

Quando dalla sede dell’Inter lo chiamarono per offrirgli la panchina nerazzurra, al telefono credettero di aver sbagliato numero: “Venite voi qui, io a Milano non ci vengo” fu la risposta. La breve avventura di Corrado Orrico all’Inter iniziò così. Fu così che una elegante Mercedes scura partì per Lucca, dove il Maestro di Volpara aveva sfiorato la serie A poche settimane prima, destando per questo l’interesse di Ernesto Pellegrini che aveva deciso di sostituire il Trap. Il presidente dell’Inter sognava di ripetere la magia di Sacchi in rossonero, l’allenatore preso in provincia, dalle serie minori, l’uomo “complicato” ma con le idee rivoluzionarie per riportare l’Inter ad aprire un ciclo di vittorie. Purtroppo per lui (e per l’Inter) più che un  sogno fu un incubo.

Le cronache raccontano che il dialogo tra i dirigenti scesi in Toscana e Orrico sia stato più o meno questo:  “Mister, il presidente Pellegrini vuole lei per sostituire Trapattoni…Vengo, ma voglio uno stipendio da operaio specializzato”. Con quella risposta da compagno orgoglioso, nell’estate del 1991 Orrico divenne il nuovo allenatore dell’Inter.

Il primo acquisto che chiese fu un muratore, per costruire la famosa gabbia alla Pinetina, memore dei campetti da calcio in cemento frequentati da bambino sulle spiagge livornesi. 300 milioni per quel contenitore dove la palla schizzava impazzita costringendo i giocatori ad affinare tecnica e riflessi.

Il secondo ad arrivare fu Montanari, difensore sconosciuto ai grandi palcoscenici ma  pupillo di Orrico a Lucca, preteso dal tecnico toscano e passato immediatamente nel dimenticatoio insieme a lui. Se ne andò invece Aldo Serena (al Milan!), protagonista dei successi degli anni precedenti. Per sostituirlo Orrico chiese a Pellegrini di portare a Milano Paolo Di Canio, richiesta bocciata dal presidente che lo riteneva un tipo poco raccomandabile. Il mister usò la sua proverbiale diplomazia toscana, spiegando al  capo che i bravi ragazzi potevano andar bene per portare all’altare sua figlia mentre nel calcio i chierichetti non hanno mai avuto fortuna, ma fu tutto inutile

Il precampionato parlò di rivoluzione vera, niente più difesa a uomo, via l’armamentario tattico del Trap, sotto con la zona e con il WM dei tempi di Pozzo in azzurro.

I giocatori iniziarono a capirlo, i tifosi molto meno, specialmente dopo l’esordio in campionato: un 1 a 1 con il Foggia che definire deludente è un eufemismo. Mentre il Milan degli olandesi  avanzava come un cater pillar, per i nerazzurri arrivava  la sconfitta in Coppa Uefa in casa del modesto Boavista. Pellegrini difendeva la squadra “Siamo solo all’inizio, ci divertiremo” ma gli spunti per sorridere erano davvero pochi. Il pareggio interno in Coppa Italia con la Casertana (2 a 2) con il passaggio del turno garantito solo dalla vittoria dell’andata in Campania portavano altri nuvoloni, appena diradati dalle vittorie all’Olimpico con la Roma e a San Siro con il Verona.

Orrico era tranquillo, tirava dritto senza cambiare atteggiamento. Parlava di arte con Klinsmann e di finanza con Matthaus, i giocatori erano dalla sua parte, anche se alcuni sostengono tutto’oggi che fosse così solo perchè con il nuovo tecnico i ritiri si erano diradati, così come le attenzioni sull’alimentazione.

Parlava poco invece con la dirigenza. Con Peppino Prisco una volta sola, mentre in sede aspettava il presidente leggendo il giornale. L'avvocato, passando, scorgendo Il Manifesto tra le sue mani, gli chiese: “Lei legge quel giornale?.Sì, perché? Per allenare l'Inter ci vuole la tessera della DC?”. Quando raccontò l'episodio a Pellegrini, la risposta del Presidente lo freddò: “Lei non lo sa, ma oggi si è fatto un nemico molto, molto pericoloso”.

I nuvoloni scaricarono tutta loro pioggia quando la Samp ne rifilò 4 ai nerazzurri in una partita senza storia, al termine della quale anche il filosofo sentì il bisogno di scusarsi con i tifosi. Le porte degli inferi si stavano aprendo davanti a lui e si materializzarono con 4 pareggi consecutivi con Fiorentina, Cagliari, Napoli e Torino. Il fiocco lo mise il Boavista, che strappò  a San Siro lo 0 a 0 e la qualificazione  nel ritorno di Coppa. L’eliminazione al primo turno dei detentori del trofeo fu a dir poco umiliante e segnò anche il magic moment che del distacco tra il gruppo ed il mister: troppa la differenza tra la concretezza del Trap e le sue mosse fantasiose.

A cavallo delle festività, il pareggio nel derby con il Milan ormai lontano e dominatore ebbe l’effetto di un brodino caldo, subito disperso dalla sconfitta con la Juve. Babbo Natale non portò grandi regali anzi. Un pareggio sofferto con il Genoa ed un vittoria con il Bari strappata solo a 4 minuti dalla fine grazie ad uno spunto isolato di Klinsmann accesero la reazione dei tifosi che assediarono San Siro dopo la fine della partita. Solo l’intervento di Pellegrini riportò la calma, ma il dado era tratto. 7 giorni dopo andò in scena l’ultima del girone d’andata , fu l’Atalanta a dare la mazzata definitiva. La sconfitta a Bergamo per 1 a 0 vedeva  i nerazzurri a metà classifica. Orrico capì, scese davanti ai giornalisti  e suonò la resa: “Ritengo che la mia presenza qui all’Inter sia, secondo le mie valutazioni, ormai più negativa che positiva, quindi è bene che tolga il disturbo e siano altri a proseguire il lavoro… sono io il colpevole, mi assumo tutte le responsabilità di questa situazione e dico che ho fallito io e non l’idea che avevo e che ritengo tuttora valida per questa squadra”.

Al contrario di quanto pensavano i tifosi, Orrico il panettone lo aveva mangiato, ma non lo aveva digerito. In una Italia dove non si dimette mai nessuno, almeno di questo la gente interista dette atto ad un uomo corretto, modesto, forse troppo modesto per una piazza difficile come quella nerazzurra.


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