Inter, Istvan Toth, lo Schindler del pallone

di Mario Spolverini, pubblicato il: 27/01/2024

Inter Toth giornata della memoria – Nella giornata della memoria riproponiamo una storia commovente ma poco conosciuta che ha avuto per protagonista un allenatore dell’Inter.

Tra i tifosi nerazzurri è ben nota la storia di Arpad Weisz, l’allenatore ungherese di origine ebrea che sulla panchina dell’Inter vinse il campionato nel 1930, il primo ad essere giocato con un girone unico. La sua vicenda è ben conosciuta, Arpad resta ancor oggi il più giovane allenatore straniero ad aver conquistato il massimo titolo nel calcio italiano. Dopo essere tornato altre due volte sulla panchina nerazzurra e dopo  aver vinto altri due scudetti a Bologna nel 1936 e 1937, le leggi razziali del governo fascista lo costrinsero a scappare dall’Italia. Nel 1938 si rifugiò prima a Parigi, poi in Olanda dove allenò fino al 1942, quando cadde nelle retate della Gestapo. Fu deportato ad Auschwitz dove trovò la morte a soli 47 anni il 31 gennaio del 1944.

Ma quella Weisz non è l’unica storia che lega l’Inter a quella tragedia che colpì il mondo intero: la Shoah. C’è un altro personaggio, sicuramente meno noto ma altrettanto importante per le vicende nerazzurre, che val la pena raccontare in occasione della Giornata della Memoria. Stiamo parlando di Istvan Toth, che sedette sulla panchina nerazzurra per un solo campionato, quello del 1931-32, prima di cedere il posto proprio ad Arpad Weisz che tornava all’Inter per la seconda volta.

Toth, ungherese, aveva giocato nel leggendario Ferencvaros per 14 anni prima di diventarne l’allenatore. Vinse due scudetti nel 1927 e 1928 e la Coppa Mitropa, paragonabile alla Champions di oggi.  Nel 1930 si sposta, come tanti altri suoi connazionali in quegli anni, in Italia, alla Triestina, l’anno dopo era all’Inter, sull’onda della fama che lo descriveva come  uno dei tecnici più preparati d’Europa.  I suoi metodi di allenamento e gli schemi tattici che usava erano rivoluzionari per l’epoca. Un Mourinho ante litteram che puntava tutto sulla motivazione del gruppo e sulla preparazione individuale, Fu il primo ad utilizzare schede personali di allenamento per ciascun giocatore per ottimizzare le performances di ciascuno di loro. Chiuse il campionato al sesto posto, l’Ambrosiana aveva altre ambizioni e dunque dovette lasciare la panca al suo connazionale Weisz. Una meteora nella storia sportiva dell’Inter ma che merita di essere ricordata per ben altri motivi.

Geza Kertesz, segniamoci questo nome. Aveva giocato per tre anni con Toth agli esordi nel Btc Budapest, poi le loro carriere si separarono. Se Toth era un traccagnotto di un metro e sessanta per 80 chili ma con uno scatto felino e due piedi d’oro, Kertesz era più di un metro e novanta, lento ma con un’intelligenza in campo fuori dal comune. “La carpa e il bradipo” li chiamavano tifosi e compagni di squadra del Btc. Il loro primo incontro risale addirittura al 1914, quando entrambi furono convocati dalla Nazionale magiara per una gara in Inghilterra. Nacque lì un’amicizia fraterna che segnerà per sempre le loro esistenze.

I due si ritrovarono in Italia, entrambi allenatori. Kertesz iniziò in sordina, piazze di seconda fascia come La Spezia, Carrarese, Viareggio, Salernitana. Fino a che non lo scoprì il barone Enrico Talamo, proprietario del Catanzaro. Kertesz guidò la squadra per la prima volta in serie B, dopo aver battuto Napoli e Perugia agli spareggi. In Calabria divenne un eroe popolare ma questo non gli bastò per placare la sua irrequietezza. L’anno dopo a Catania nuovo miracolo, anche per gli etnei era la prima volta in serie B. E mentre Toth arrivava all’Inter, guidava altre due formazioni prestigiose quali Lazio e Roma.

Ma l’aria era pesante, l’Italia era entrata in guerra e Kertesz preferì tornare in patria. Anche Toth aveva preso la stessa decisione, in patria si trovarono per la prima volta l’uno contro l’altro, Toth di nuovo allenatore del Ferencvaros,  Kertesz sulla panchina degli acerrimi rivali dell’Ujpest. La guerra e le persecuzioni arrivarono anche in Ungheria, gli ebrei furono rinchiusi nel ghetto di Budapest e iniziò la loro decimazione. E qui, la loro vita cambia per sempre. Istvan e Geza non restarono fermi,  presero contatto con la resistenza ungherese, bisognava salvare la gente dai Nylas, i nazisti più violenti. Costituirono la cellula “Melodia” una ventina di giovanotti, formata da quasi tutti ex calciatori. Entrambi avevano un ottimo accento tedesco, trovarono uniformi della Wehrmacht e si travestirono da soldati tedeschi. Così camuffati entravano nelle case degli ebrei e fingevano di arrestarli. Poi li caricavano su treni per garantire loro l’espatrio in paesi più  sicuri.

Toth e Kertsz allacciarono importanti rapporti con i servizi segreti americani che fornivano loro i documenti falsi da consegnare agli ebrei da mettere in salvo: in poco tempo la loro organizzazione risultò una delle più efficienti di Budapest. Con il risultato non indifferente di centinaia di ebrei che vennero nascosti tra case e monasteri messi a disposizione da amici fidati e poi fatti fuggire. In altre parole, salvati. Géza addirittura, vestito da ufficiale nazista entrò perfino nello scalo merci da dove partivano i treni per i campi di sterminio. E grazie al suo tedesco fluente, radunava le famiglie in attesa di essere deportate, le caricava sulla sua automobile e su camion di fortuna e li portava lontano dall’inferno, verso la salvezza.

In casa sua nascondeva padre e figlia ebrei.  La verità venne a galla solo quando un delatore lo raccontò al comando tedesco. Li presero tutti, quelli del gruppo “Melodia”. I russi erano alle porte di Budapest, la città stava per essere liberata. Istavan e Geza, prigionieri nelle cantine del castello di Budapest, sapevano e speravano. Il 6 febbraio del 1945 i tedeschi stavano scappando, liberarono tutti fuorchè loro due e cinque loro compagni. Il loro destino, purtroppo, era già segnato. Una mitragliata nel giardino del castello mise fine alla loro amicizia. Con la beffa che Budapest fu liberata dai tedeschi solo pochi giorni dopo.

Toth e Kertsz, due protagonisti del nostro calcio degli anni ’30, hanno scelto di sacrificare la loro vita pur di salvare quella di tantissimi innocenti, altrimenti destinati a finire per sempre nella lunghissima lista delle vittime del nazifascismo. In un anno avevano salvato la vita a centinaia di ebrei ma il regime ungherese ha sempre lasciato nell’oblio la loro storia. Solo dopo diversi decenni le loro gesta sono riemerse, grazie anche alle ricerche di un gruppo di studiosi catanesi. Qualcuno li ha chiamati gli Schindler del pallone, un soprannome che, rileggendo la loro storia ai giorni nostri, non può che essere più calzante. Perché è sempre importante ricordare. Solo così potremo evitare di commettere gli stessi errori del passato.


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