Una vita da mediano, prima di Oriali e dopo la Trinità 

di Mario Spolverini, pubblicato il: 10/04/2019

 

Una vita da mediano non è nata con Ligabue e Lele Oriali, quello è stato il momento in cui la grandezza del sacrificio del numero 4 di una volta è stato esaltato come il gol del centravanti. Se Oriali ha vinto poco con l’Inter ma è diventato campione del mondo, Gianfranco Bedin ha vinto tutto quello che si poteva vincere con l’Inter di Herrera. Persino tra i tifosi nerazzurri più attempati può riuscire difficile tratteggiare e ricordare qualcosa di epico della carriera di Bedin. Anche perché nell’immaginario collettivo il rosario dei Santissimi di quei decenni si fermava ai primi tre, Sarti Burgnich, Facchetti… Lui era il primo dopo la Trinità, ma in campo non veniva dietro a nessuno. 

Il medianaccio di allora non si trovava davanti Dybala o Biglia, quasi tutte le domeniche (ed i mercoledì) quel povero Cristo incrociava gente come Rivera, Eusebio, Sivori, Pelè, Di Stefano, Neeskens e via dicendo. C’era una cosa che spingeva molti dei “quattro” di allora a sudare non 7 ma 14 camicie per fermare “la stella” che aveva di fronte: la fame.

Si, perché giocare nell’Inter di Herrera voleva dire essere nati negli anni della guerra o subito dopo, quando le spalle rubate all’agricoltura non era un’ offesa ma una realtà di tante famiglie. Ed era la realtà di Bedin che non ha mai nascosto le sue origini di stenti e misera nel Veneto degli anni 50. “Oggi i ragazzi vanno alle scuole calcio, hanno playstation e cellulare. Diverse motivazioni, altre opzioni. Noi eravamo posseduti da una feroce voglia di arrivare. Io i miei numeri “dieci” li avrei inseguiti ovunque: al bagno, a casa“. Ecco quello che trasformava uno dei tanti numeri 4 in un Bedin.

Nelle figurine Panini, Mazzola e Facchetti sorridevano quasi sempre, lui no, era uno di quelli che sembrava perennemente incazzato, sempre in guerra, sul campo e nella vita. Eppure non era così. Il gruppo era solito prendere in giro Jair che raccontava di essere cresciuto in mezzo alle galline. Un giorno Bedin arrivò in pullman con un bel pollo, vivo e vegeto, per regalarlo all’amico brasiliano. Quella gallina divenne il portafortuna della squadra per tutta la stagione e quando un giorno fu dimenticata al ristorante, Bedin obbligò l’autista a fare marcia indietro per recuperare il prezioso pennuto.

Bedin sapeva ridere perché sapeva soffrire. Mazzola e Corso se ne stavano lassù ad aspettare che i portatori d’acqua facessero il loro mestiere. Prima azzerare il genio avversario, poi correre a stantuffo per regalare a loro la palla che sarebbe diventata storica tra i loro piedi. Ma chi l’aveva sganasciata agli avversari era lui. E quando le cose si mettevano poco bene ( non male, per la grande Inter le cose non si mettevano mai male) era lui ad impugnare la tromba e suonare la carica.

Bedin sapeva di non essere al centro dell’attenzione ma al centro del gioco della sua Inter. E sapeva perfettamente qual’era il suo compito principale: mordere il suo avversario come se ogni pallone toccato fosse un torto personale nei suoi confronti. . La grande Inter di Herrera nasceva con lui, forse meglio dire da lui, da ogni pallone recuperato con il coltello tra i denti da Bedin. Poi bastava darla a Luisito, e da lì in poi l’orchestra iniziava la sua sinfonia.

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