Boninsegna: un nano diventato gigante, tra coraggio e tradimenti

di Mario Spolverini, pubblicato il: 29/09/2019

Era la sua mamma che lo portava allo stadio di Mantova a seguire le partite casalinghe, era lei la tifosa di casa più del papà L’accompagnava la levatrice, visto che era incinta di otto mesi ed i custodi del Martelli temevano che partorisse sulle tribune. Bobo stava ancora nel pancione materno ed già era in modalità “battaglia”, cosa poteva uscire se non un guerriero dell’area di rigore? E’ doveroso ringraziare la signora Elsa, la mamma di Roberto Boninsegna per avergli dedicato tante cure già prima il pargolo che vedesse la luce, senza di lei l’Inter e il calcio italiano non avrebbero goduto delle gesta di uno degli attaccanti più micidiali che abbiano frequentato i campi da calcio.

Per gli interisti è rimasto Bonimba, soprannome affibbiatogli da Gianni Brera come unione lessicale di BoninsegnaBagonghi. Quest’ultimo era un nano agilissimo che a quell’epoca si esibiva al circo Togni. Aveva le gambe cortissime e testa grossa come tutti i nani degni di tal nome. Quando si incrociarono, il bomber chiese al maestro della penna il perché di quel soprannome “Lui mi rispose, guardandomi dal basso all’alto, che il soprannome derivava dal fatto che – pur piccolo di statura – riuscivo sempre a saltare più in alto dei difensori.Lo guardai dall’alto al basso, alzandomi ancora di più sulle punte dei piedi, e gli risposi ridendo che tra noi due il nano non ero certamente io. Dovette ammettere che in effetti, vedendomi dalla tribuna, aveva ricavato un’impressione sbagliata. E ridendo a sua volta, mi disse che nano mi aveva chiamato e nano dovevo restare.Con una concessione, però: ero un NANO GIGANTE”.

Quella di Boninsegna e il calcio è una storia in cui dominano due concetti: il tradimento ed il coraggio. Il primo dei tradimenti arrivò ancor prima che la sua carriera vera iniziasse. Era cresciuto nell’Inter, era giunto alle soglie della prima squadra, allenata da Helenio Herrera. Doveva esordire in serie A a Bergamo nel 1963 ma HH manda in campo Di Giacomo nonostante un braccio malmesso. Pochi giorni dopo lo mandano in prestito al Prato da dove rientra a fine stagione, convinto di restare. Quando Allodi lo chiamò per dirgli che doveva andare a Potenza, di fronte alle proteste del giovane attaccante, la risposta del dirigente fu di quelle che non ammettono repliche: o andava in Basilicata o avrebbe smesso di giocare. Bobo buttò giù il boccone amaro, strinse i denti e partì per il sud, dove rimase un anno soltanto, sfiorando la promozione storica.

In serie A ci arrivò con il Varese l’anno dopo, il destino vuole che il suo esordio sia proprio a San Siro, i nerazzurri ne rifilano 5 ai varesini, Bonimba guarda verso quella panchina, verso quell’allenatore che gli aveva negato la gioia di una vita. Il Varese arriva penultimo ma quel ragazzotto tosto e tenace si mise in mostra fino a fare le valigie per Cagliari, lo squadrone di Manlio Scopigno che da lì a poco, nel 1970, avrebbe vinto il titolo. Lì trova Gigi Riva, un fratello con cui condividere tutto, dalla camera nei ritiri alle sigarette.Un giorno, Bonimba sale sull'Alfa Quadrifoglio truccata di Rombo di Tuono per un giro verso Villasimius. “Non c’erano le cinture. Curve su due ruote. Il giorno dopo ho fatto l’assicurazione sulla vita racconta a Gianni Mura su Repubblica. Con Scopigno un rapporto quasi fraterno, fotografato nel leggendario “dispiace se fumo?”, che interrompe una notturna partita a poker in ritiro. “Una volta mi sono presentato in smoking all’allenamento del mattino. Arrivavo da Venezia in aereo, dopo il Carnevale. Scopigno mi guarda e dice: ‘Almeno potevi toglierti i coriandoli dai capelli”.

Allo scudetto degli isolani Boninsegna non partecipa perché arriva il secondo tradimento. Siamo nel 1969, Scopigno vuole una rosa più ampia, la dirigenza rossoblu ha bisogno di fare cassa e lo chiama: “dobbiamo vendere te o Gigi,” gli unici che avevano un mercato importante. Si capisce bene chi sia il predestinato a partire, Bonimba accetta ma ad una condizione: l’Inter, solo l’Inter. Diventa così il primo grandissimo acquisto di Fraizzoli, che per lui lascia andare a Cagliari Gori, Poli e Domenghini non senza polemiche visto che Domingo era rimasto uno degli ultimi, amatissimi reduci dell’Inter campione di tutto di HH.

In nerazzurro Bonimba segna un’epoca, pur senza vincere molto. 197 volte con quella maglia e 113 gol, una presenza dirompente per potenza, autorevolezza, coraggio. Il tutto condito da un caratterino per niente adorabile, raro esempio di attaccante che forse riusciva a dare più botte di quelle che prendeva, nelle mischie sulle palle da fermo era spesso lui a mettere per primo le mani addosso al difensore. Il coraggio appunto era l’altra specialità della casa. In un derby di quegli anni le telecamere lo sorpresero a “discutere” con Romeo Benetti, un armadio a quattro ante che tutti gli avversari evitavano più che volentieri. La faccia di Bonimba fece paura anche a lui che si ritirò incassando il colpo senza tante storie.

Quel coraggio rimasto immortalato in uno degli scatti fotografici più famosi del calcio italiano, con Boninsegna che vola ad incornare un pallone mentre il napoletano Panzanato alza il suo gambone all’altezza della tempia del bomber. Pochi centimetri fecero la differenza tra uno dei gol più belli della storia di Boninsegna in nerazzurro ed il dramma.

Coraggio, o forse solo faccia tosta per affrontare anche mostri sacri come Trapattoni. “A me . racconta – il sabato piaceva calciare una trentina di rigori, mi aveva insegnato Meazza. e poi tirare al volo sui cross. Pioveva, un giorno, e ne ho tirato uno altissimo. “Bobo, vuoi che ti dica dove hai sbagliato?”. “Scusa Trap, ma tu quanti gol hai fatto da professonista?”. “Sei o sette”. “Io 160, non mi menare il torrone”. Mi ha fatto dare 150mila lire di multa, ma poi amici come prima…”.

Alla fine del sua prima stagione all’Inter segna 13 gol ma lo scudetto lo vince il suo amico Gigi Riva a Cagliari. Arrivano le convocazioni per i mondiali messicani, Bonimba è nella prima rosa dei 40 ma non in quella dei 22. Ci pensa Pietro Anastasi (un nome che tornerà nella sua storia qualche anno più tardi) a regalargli il viaggio in Messico al suo posto causa un intervento chirurgico d’urgenza. Arriva con qualche giorno di ritardo ma in tempo per segnare rimasti nella storia azzurra, l’1 a 0 nel mitico 4 a 3 con i panzer tedeschi in semifinale e l’illusorio 1 a 1 nella finale con il Brasile di Pelè. Senza dimenticare l’assist per Rivera per l’ultimo, epico gol di quella semifinale, pallone che Roberto ricorda con lo stesso piacere di un gol.

L’anno dopo arriva il tricolore e, come cadeaux, la classifica dei cannonieri con 24 centri, il più bello dei quali, anche questo rimasto indelebile nella storia nerazzurra, è la sforbiciata volante che aprì la cinquina rifilata al Foggia nel giorno dello scudetto matematico . Ed arriva in quell’anno anche un altro dei momenti indimenticabili per Boninsegna e per i tifosi interisti già in sofferenza in quegli anni. Nell’ottobre del 1971 l’Inter vola a Monchengladbach per l’ottavo di finale di Coppa dei Campioni. I nerazzurri avevano preso un po’ sottogamba quei tedesconi quasi sconosciuti al grande pubblico. Fatto sta che alla mezz’ora erano sotto 2 a 1. A quel punto Boninsegna crolla a terra, colpito da una lattina e deve uscire. L’Inter va in bambola e rimedia un 7 a 1 drammatico. La storia narra che Gunther Netzer, stella dei tedeschi, fece sparire immediatamente la lattina, lanciata dagli spalti da un operaio 29enne, Manfred Kristein, che i tedeschi tenteranno invano di far passare per tifoso dell'Inter. “Ma Sandro Mazzola ne prese un'altra, identica, da una coppia di supporter italiani e la consegnò all'arbitro…Il resto è nell'iniziativa di Peppino Prisco, che ottiene l'annullamento della partita: si deve rigiocare tutta la doppia sfida. L'Inter passerà (4 a 2 a Milano e 0 a0 in Germania) e arriverà fino alla finale dove sarà poi sconfitta dall’Ajax di Crujff .

Era finito il ciclo della grande Inter e anche quello di ciò che di essa rimaneva, quello che non aveva finito di segnare era sempre e solo lui, anno dopo anno. Fino ad arrivare all’estate del 1976, l’anno dell’ultimo “tradimento”. Il bomber era in vacanza a Viareggio, mentre stava pranzando con la moglie arriva la telefonata di Fraizzoli che lo informava della cessione alla Juventus. “Presidente, alla Juve ci va lei” fu la risposta testuale di Boninsegna, che all’epoca aveva 33 anni.

In quel rifiuto telefonico a Fraizzoli c’era tutta la storia di Roberto, figlio di operai, dichiaratamente di sinistra. “Non facevo comizi, ma non ho mai nascosto da che parte stavo” ha raccontato in una intervista di qualche anno fa.”E da che parte potevo stare? Mio padre era nel consiglio di fabbrica, alla Burgo. Bastava che facesse un fischio e si fermava il reparto…” . Quel passaggio non fu indolore, né per i tifosi né per lui. “Mia moglie si ricorda ancora che mi tremava la cornetta e diventai bianco come un lenzuolo. Volevo morire…». La morte nel cuore di Bonimba, ma anche di quello del popolo nerazzurro che si sentì tradito. «Ancora oggi ci sono interisti convinti che abbia fatto il “mercenario”, ignorano che all’epoca non esisteva lo svincolo e che il calciatore era totalmente ostaggio della società”.

Come era andato a Prato a Potenza e a Cagliari, Bobo prese anche la strada per Torino, dove si regalò la soddisfazione enorme di altri due scudetti ed un coppa Uefa, oltre alla doppietta ai suoi ex compagni nella prima sfida da ex. All’Inter al suo posto era arrivato Pietro Anastasi, che gli fece il secondo regalo dopo Mexico 70,lasciandogli in eredità il posto in una squadra vincente mentre lui a Milano non seppe scrivere pagine altrettanto indimenticabili, anzi.

Bonimba ha avuto anche il “coraggio” di fare l’attore, in un ruolo quanto meno particolare. Lo racconta lui stesso in una intervista che Repubblica gli ha dedicato in occasione dei suoi 70 anni. “Un giorno mi telefona Facchetti. Bobo, c' è il regista Salvatore Nocita, un interista vero, che girerà a Mantova un pezzo dei Promessi sposi, sceneggiato tv, e ha pensato a te. Che parte dovrei fare, Giacinto? Il monatto, quello che carica gli appestati sul carretto. E perché non lo fai tu? Perché io sono alto, bello e biondo. Così ho fatto il monatto, senza pensare di essere basso, brutto e moro. E mi sono anche divertito“. Nello sceneggiato portava via i malati di peste, nelle aree di rigore si è portato via carretti interi di difensori appestati dalla sua irruenza, dalla sua forza, dal suo coraggio.

Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards… credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa” dice Stefano Accorsi nel monologo più famoso di “Radio Freccia”. Chi lo ha visto giocare non ha mai smesso di credere nelle sue rovesciate, chi non ha avuto la fortuna di vederlo si fidi dei più anziani, uno così nasce una volta ogni 100 anni.


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