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History Inter: Cordoba, Colombia te quiere ver

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1 Non deve essere stato facile1.1 C’era morte ovunque1.1.1 La vida no termina aquí1.1.1.1 E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le aliNon deve essere stato facile(è il primo pensiero che mi coglie dopo aver scritto le prime righe dell’articolo.)Non deve essere stato facile. In un Paese in ginocchio, con un tasso di criminalità elevatissimo, con omicidi, violenze, minacce, attentati e dilaniato da una lotta di potere interno tra i vari cartelli della droga. E deve essere stato ancora meno facile se sei nato a cavallo degli anni ’70 e ’80 alla Ciudad Santiago de Arma de Rionegro, più comunemente chiamata Rionegro, appartenente al dipartimento di Antioquia e soprannominata Cuna de la Democracia (Culla della democrazia) in quanto fu una delle città più importanti durante il periodo della lotta per l’indipendenza della Colombia e dove fu scritta la Costituzione nel 1863. Deve essere stato molto complicato anche perchè Rionegro ha dato i natali a chi la Colombia l’aveva trascinata nel baratro. Pablo Emilio Escobar Gaviria, detto “El Patrón”, padre e padrone, per quasi un ventennio, della Colombia e dei colombiani. C’era morte ovunqueAnni duri, difficili, in un paese incapace politicamente di reagire. Ribellarsi alle minacce, alle aggressioni, agli attentati, alla morte; autobus e aerei imbottiti di esplosivi, centri di polizia rasi al suolo dalle incursioni di narcotrafficanti, criminali e paramilitari tutti associati al volere del Patrón. Solo l’intervento degli Stati Uniti, in collaborazione con il governo Colombiano e con i PEPEs (Perseguidos por Pablo Escobar) hanno permesso di porre rimedio a una serie di anni devastanti per i colombiani. E’ il 2 dicembre 1993 e in seguito ad un’incursione da parte del Bloque de Búsqueda, unità operativa della polizia colombiana, Pablo Escobar viene ucciso, ponendo fine al cartello di Medellín, ma non al continuo, inesauribile clima di tensione e violenza. Seguiranno infatti mesi complicati e nel vuoto di potere creatosi, molte delle famiglie rimaste volevano insediarsi aspirando a prendere il potere lasciato vacante dopo la morte di Pablo Escobar.La vida no termina aquíAndrés Escobar, dopo l’eliminazione dal Mondiale 1994.La vita di Andrés Escobar, uno dei più grandi calciatori colombiani della storia, numero 2 dei cafeteros, jugador del pueblo, grazie alle particolari doti umane e di leadership, ha fine esattamente sette mesi dopo la morte di Pablo. Il 2 luglio 1994, il suo corpo viene trivellato da una scarica di proiettili, appena fuori Medellín, scaricati da Humberto Muñoz Castro, guardaspalle dei Gallón Henao, famiglia vogliosa di prendere l’eredità del Patrón. La sua colpa? Aver realizzato un’autorete nella fase a gironi del mondiale brasiliano contro gli Stati Uniti giocato poche settimane prima, eliminando, di fatto, la Colombia dal torneo mondiale.La camiseta n.2 della Nazionale Colombiana morì insieme ad Andrés.La misura era ormai colma e l’ultimo grido non fu solo quello di Andrés ma fu quello di tutta la Colombia, quello dell’intero popolo colombiano. Il grido di disperazione più doloroso, quello più forte e profondo. Francisco Maturana, allenatore di quella maledetta spedizione mondiale, lo ricordò cosi: “Per tutti ha pagato il più bravo, semplicemente il più bravo. Quello che per doti umane e calcistiche era destinato a essere per sempre un modello per questo paese.” La Colombia e i colombiani erano ormai giunti a un bivio. Avevano la possibilità di cambiare il corso della storia, diversamente sarebbero andati in contro all’autodistruzione.E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali

Sempre a Rionegro, nel lontano 1976, anno in cui il Patrón inizia la “carriera” narcotrafficante su scala internazionale varcando i confini colombiani, nasce Iván Ramiro Córdoba Sepúlveda, ai secoli Iván Córdoba. La madre era volontaria nell’ospedale cittadino mentre il padre era un rappresentante della Caja Agraria, un istituto di credito bancario colombiano. Non deve essere stato facile per Iván. Non era facile per nessuno in quel contesto, tanto meno per un bambino che aveva la passione per il fútbol. Non era nemmeno facile perchè oltre alla grave situazione sociale del paese, anche il fisico non gli dava una mano, nonostante una volontà ferrea, la sua crescita fisica era molto limitata. E per un difensore, ruolo al quale ambiva diventare, quei centosettantacentimetri mal contati, erano un problema. Non per lui però. Non aveva una tecnica sufficiente per giocare in un’altra zona di campo e non aveva le qualità per diventare un giocatore estroso o di talento. Ma aveva una grande forza interiore. La stessa forza che nel 1994, anno nefasto per l’intera Colombia, lo porta a debuttare in prima squadra nel Deportivo Rionegro, iniziando quel processo di crescita che vedrà la carriera di Córdoba andare a braccetto con la rinascita sociale del paese cafetero, in cui il calcio ha avuto una funzione vitale.

A un bambino darei le ali, ma lascerei che imparasse a volare da soloGabriel García Márquez Il volo è quello che Córdoba spicca dopo le ottime prestazioni messe in campo con il Deportivo Rionegro. La garra e la capacità di soffrire e di migliorarsi sono le qualità migliori di cui dispone. Sul terreno di gioco concede spesso fisico e centimetri agli attaccanti avversari, ma quasi mai si fa superare. Il suo stacco da fermo è imperioso e arriva a ben 75 cm da terra. Le prestazioni attirano su di se le attenzioni dei colossi Sudamericani, trasferendosi in un primo momento all’ Atlético Nacional, vera e propria istituzione nazionale e successivamente in argentina al San Lorenzo de Almagro, la squadra di Papa Francesco. Viene finalmente rispolverata la camiseta n.2.La crescita di Córdoba è inarrestabile e nel 1997 viene convocato nella selezione nazionale per le partite di qualificazioni ai Mondiali dell’anno successivo ma, cosa più importante, gli viene consegnata la camiseta n.2, la maglia ancora intrisa del sangue di Andrés Escobar in una lotta al potere senza senso che ha dilaniato intere generazioni colombiane. La morte di Andrés non è rimasta vana e ha rappresentato il punto finale di non ritorno e come la spada di Simón Bolívar, conserva un alone di fascino e di speranza dal valore inestimabile, vero e proprio simbolo di liberazione nazionale. Ora quella maglia è sulle spalle di Iván Ramiro Córdoba Sepúlveda, il predestinato.Nel frattempo la Colombia prosegue nel suo percorso di riorganizzazione a tutti i livelli. Da un lato era diminuita la stretta dei narcotrafficanti, ma rimanevano altre questioni in sospeso. Guerriglieri e paramilitari erano ancora un problema troppo grande per garantire ai colombiani il ritorno alla completa normalità.Milano sola andata.Nel gennaio 2000 approda in Europa, arriva all’Inter. I nerazzurri hanno bisogno di puntellare la difesa e Massimo Moratti non ci pensa due volte a sborsare una cifra considerevole per acquistare il cartellino del giovane difensore colombiano. Dopo un breve periodo di apprendimento, diventa il perno insostituibile della difesa interista. Le letture di gioco e la fase di impostazione non sono eccellenti, ma compensa con caparbietà, intelligenza, grinta e una personalità debordante. Discorso identico in nazionale dove si impone a suon di prestazioni importanti contro gli attaccanti più temibili del panorama mondiale.Colombiani, è tutto per Voi.La Colombia che torna molto molto lentamente alla normalità, grazie anche a un modello di politica differente, nel 2001 organizza, non senza problemi dovuti agli scontri fra le forze governative colombiane e i guerriglieri delle FARC, la Copa América e sorprendentemente arriva in finale contro il Messico. La partita si gioca il 28 luglio 2001 allo stadio El Campín di Bogotà. Al minuto 65′, con il risultato ancora fermo sullo 0 a 0, i Cafeteros hanno l’occasione di rendersi pericolosi grazie a un calcio di punizione sulla trequarti avversaria fischiato dall’arbitro paraguaiano Aquino. Sul pallone si presenta Iván López che calcia forte e teso al centro dell’area. Un silenzio assordante invade lo stadio mentre la maglia n.2 di Córdoba sale in cielo e idealmente aiutato da Andrés Escobar, porta in vantaggio la Colombia. GOOOOOOOOOL! El Campín esplode in un gesto di liberazione che va al di là del semplice gol; è una liberazione superiore che dall’alto del cielo scende fino all’animo di ogni colombiano per la speranza di un futuro migliore. Interisti, è per Voi.Córdoba torna a Milano e negli anni a seguire è il titolare inamovibile della squadra nerazzurra. I successi in un primo momento si fanno attendere, mentre sono le sconfitte, anche clamorose a far cadere nello sconforto i tifosi interisti. Ma il tempo è galantuomo e grazie a uno spirito di squadra straordinario unito alla qualità dei giocatori presenti i trofei iniziano a riempire la bacheca nerazzurra. E tutti i successi ottenuti, vanno ascritti a un gruppo di giocatori formidabili uniti da una passione e da un grande senso di appartenenza ai colori del cielo e della notte. I successi nascono da storie di uomini. Nascono da storie, come quella di Iván Córdoba, un uomo che è diventato grande facendosi strada in una condizione sociale molto complicata. Storie che appartengono a un passato lontano, storie che i colombiani non vogliono più ascoltare, perchè, come Córdoba con la maglia nerazzurra, hanno riscritto la storia della propria vita. “La cosa che mi manca di più è la fatica, il cuore che ti va a mille quando fai un recupero in extremis. Poi gli applausi del pubblico, l’adrenalina e le chiacchiere con i compagni nello spogliatoio. Mi manca la sensazione di benessere che senti quando fai il tuo dovere per la tua squadra. E poi un gol che per noi difensori è una rarità: quando arriva ti senti in paradiso.”Chiudo con un dubbio. Non mi è ancora chiaro in che città si beve il miglior caffè colombiano. I Medellinensi diranno Medellín, i cachaco diranno Bogotà, i Barranquillero diranno Barranquilla, i Caleño diranno Cali, i Samario diranno Santa Marta e infine i Rionegreri diranno Rionegro. Cuique suum, a ciascuno il suo. L’unica cosa che conta veramente per i colombiani è il futuro; la speranza, Iván, l’ha lanciata in quella lontana estate di quindici anni fa…Marco Pedrolini