Mazzola disse di no alla Fiat, dal basket all’Inter grazie ad un Veleno

di Mario Spolverini, pubblicato il: 08/04/2020

Ci provarono anche con lui. Ad un dirigente dell’Inter non sarebbe mai venuto in mente di provare a portare in nerazzurro Sivori o Bettega, Zoff o Del Piero, le bandiere esigono rispetto anche dagli avversari, ma non tutti la pensano così. Sandro Mazzola vide la prima automobile con il telefono nel 1967, era di un ex giocatore della Juventus che non si sa come era riuscito ad entrare ad Appiano Gentile. L’Inter aveva da poco perso a Mantova, il ciclo dello squadrone di Helenio Herrera era finito. Quando il bianconero gli mise in mano l’apparecchio a Mazzola si piegarono le ginocchia. Dall’altra parte la cornetta telefonica era in mano all’Avvocato Agnelli che gli dette appuntamento per qualche giorno dopo. Quando si incontrarono Sandrino si sentì mettere a disposizione una concessionaria della Fiat, un’agenzia della SAI i ed il raddoppio dello stipendio se fosse passato al “nemico”. Tanta, tanta roba per quegli anni. Mazzola decise di parlarne con la madre, prima di rispondere.

Qui occorre un passo indietro, perché le storie della vita sono strane, anche per personaggi molto in vista. Papà Valentino aveva avuto Sandro e Ferruccio dalla moglie Emilia. Il matrimonio andò all’aria nel 1946, il capitano del Torino ottenne l’annullamento del vincolo matrimoniale in Romania e potè poi risposarsi con la signora Giuseppina. Dopo una incredibile storia di ricorsi e carte bollate, il matrimonio fu celebrato a Vienna, il 20 aprile del 1949. Il 4 maggio, 14 giorni dopo, l’aereo del Grande Torino si schiantò a Superga. I tribunali avevano dovuto lavorare anche per l’affidamento dei figli, Sandro era stato affidato al papà, Ferruccio alla mamma. Dopo la morte di Valentino Mazzola, Sandro si trovò al centro di uno scontro feroce tra la madre naturale e la seconda moglie. Dopo la tragedia, quest’ultima lo affidò ad un industriale amico di famiglia per tenerlo lontano dal clima pesante di quei giorni. Quando la signora Emilia andò a Torino per salutare il figlio e non lo trovò fu costretta a rivolgersi ad avvocati e carabinieri per riabbracciare il suo primogenito e riportarlo a Cassano d’Adda.

Fine del flash back. Quando Mazzola disse alla mamma della proposta di Agnelli, le parole della signora Emilia fecero Cassazione “El fioeu del capitan del Toro giuga ne la Juve! L’è no pusibil!”

Un predestinato? Certo che si, con quel cognome e in quegli anni era difficile sfuggire al destino, specialmente quando gli Dei del calcio rendono immortale tuo padre, trasformandolo con la morte da leggenda in campo a eroe del popolo. Ma l’inizio della sua storia è ardua anche per questo, l’ammirazione sconfinata ed il rimpianto di un’intera nazione aveva lasciato la famiglia in uno stato di lutto ad oltranza. Quando muore Valentino Sandro Mazzola non ha ancora 7 anni, suo fratello Ferruccio 5. “Non mi dissero nulla, – ricorda il Baffo – non mi raccontarono cos’era successo. So solo che da un giorno all’altro portarono me e mio fratello via dal paese di papà. Mi dissero tutto solo dopo una settimana: so solo che non capivo perché mio padre non ritornasse a casa come al solito, stanco dopo una giornata tra il negozio e il campo”.

Gli restavano pochi ricordi di suo padre, la sua mano sulla testa quando entravano al Filadelfia. Lui era la mascotte del Toro, gli sembrava che insieme potessero spaccare il mondo. Era già convinto, con la presunzione dei bambini, di essere un buon calciatore perché segnava su rigore a Bacigalupo, ma segnava perché lui faceva passare apposta i suoi tiri.Con il passare degli anni quel cognome diventava più pesante. Un peso che per un adolescente può rivelarsi insopportabile, con la statura di un padre così si rischiano paragoni continui e giudizi velenosi al primo errore.

Il timore non infondato di una vita da passare all’ombra di papà convinse Sandrino a guardare al basket. A Milano dettava legge la Simmenthal di Rubini e Riminucci, il provino di Sandro fu pure positivo. Il basket italiano poteva aver un play-ala con il baffetto irridente e tanto fosforo in testa.

Ma qui arriva il primo personaggio che segnerà la vita di Mazzola, un toscanaccio arrivato all’Inter subito dopo la guerra per restarci fini agli albori degli anni ’60. Benito Lorenzi, in arte “Veleno” sentiva di avere un debito di riconoscenza con Valentino Mazzola. In quegli anni veniva regolarmente convocato per la Nazionale ma il campo lo assaggiava poco, probabilmente per il carattere non proprio serafico. Fu solo grazie all’intervento del capitano del Torino che il mister si convinse a dare qualche opportunità azzurra anche a lui.

È l’unica persona che si ricordò che mio padre aveva lasciato due figli. Era un burlone: amava scherzare fuori dal campo, e dentro era completamente fuori controllo. Ma era una persona eccezionale e di ottimo cuore. Certo, come si diceva era solito lasciare l’anima negli spogliatoi” racconterà Mazzola molto tempo dopo. “Veleno” non era un tipo qualunque, come il nomignolo lascia intendere. Repubblichino della prima ora, in campo era solito liberarsi degli avversari sui contrasti aerei strizzando i loro testicoli prima di saltare. La sua ironia e lo slang toscano erano particolarmente invisi a chi lo doveva affrontare, specialmente quando passava gran parte della partita ad apostrofare Boniperti come “Marisa” oppure a ricordare a John Charles che la sua regina era una poco di buono. Solo ad uno come lui poteva venire in mente nel 1957 di mettere mezzo limone sul dischetto mentre Cucchiaroni del Milan stava per battere un rigore. Il tiro del rossonero finì in curva, “Veleno”confessò la sua furbata ad un prete (interista) qualche tempo dopo.

Fu proprio Lorenzi a “lavorare”sulla signora Emilia e sui due fratelli perché riprendessero la strada del calcio lasciando da parte la palla a spicchi. Danilo Sarugia racconta del primo incontro tra “Veleno” ed i due ragazzi, in occasione di un evento proprio a Cassano Adda. “Lorenzi portò due regali, un pallone di cuoio per Ferruccio ed un paio di scarpe da calcio per Sandro. E pazienza se queste erano un 42, 5 misure più grandi delle sue”.

Prima li portò alla squadretta dell’Oratorio locale, la Milanesina, nel frattempo iniziò ad inserirli nel mondo Inter. Sandro e Ferruccio presero a frequentare San Siro nei match interni come raccattapalle, portando a casa qualche soldo che non guastava ed i primi profumi di quell’ambiente che avrebbe caratterizzato la loro vita. Ed è sempre Lorenzi ad accompagnare Sandro al primo provino con l’Inter nel 1956. Visto e preso, naturalmente. A 14 anni Sandro lascia Cassano d’Adda, i suoi amici del cuore ”Merda gialla”, “Limonino” e “Tista”per iniziare a inseguire il suo sogno di diventare come papà.Nella scuola nerazzurra Sandro è affidato prima alle mani sapienti di Giovanni Ferrari, due volte campione del mondo e otto scudetti.

Poi arriva il momento della seconda persona che indirizzerà la sua vita e la sua carriera. Quando Mazzola arriva nella Primavera nerazzurra i due si conoscono già, Giuseppe Meazza era solito andare a scrutare gli allenamenti delle giovanili e tirare due calci insieme ai ragazzi. Sandrino mandava già i primi segnali di quello che sarebbe stato il suo talento. Qualcuno sembrava non capirlo, come un famoso giornalista dell’epoca, Nino Nutrizio che sulla “Notte”sparò un giudizio di cui non si sarà mai pentito abbastanza: “Mazzola? Se si chiamasse Pettirossi giocherebbe nel Pavia”. Meazza invece aveva capito tutto e si coccolava il ragazzo facendogli da mentore sportivo e non solo. Un giorno, dopo una pessima gara giocata contro il Torino, lo chiamò per due parole in privato. “Ho capì tütt, Sandrino, lassa stà”. Prima della gara Mazzola nello spogliatoio era stato accompagnato a vedere l’armadietto che era stato di papà Valentino e la cosa lo aveva tramortito. Ed è proprio lui a ricordare le lezioni di calcio e di vita ricevute da Meazza. “Sapeva esser duro, all’occorrenza. Ricordo una partita al campo Bramante, giocavo ala destra, piccolo e mingherlino com’ero a 16 anni. Un compagno, Galli, non mi chiudeva mai il triangolo. Gli ho gridato dietro qualcosa di poco carino. A fine partita Meazza mi fa. “Ohei te, Pastina,io ho vinto due mondiali e non ho mai ripreso un mio compagno in campo. Se ti becco un’altra volta a criticare un compagno hai finito di giocare a pallone”. Quando inizia ad allenarsi con la prima squadra tutti capiscono. Uno dei primi ad accorgersi del talento di Mazzola è Enea Masiero, difensore che definire arcigno è un eufemsimo. Un canettaccio che azzanna le caviglie dell’avversario, un duro insomma. Negli allenamenti toccava a lui marcarlo. “Era capace di tre, quattro, cinque scatto consecutivi in 30 metri di corsa, bruciava l’erba, mi faceva venire il mal di testa…”

A questo punto la storia di Mazzola incontra per la prima volta la Juventus. E’il 1961, Calciopoli è lontana ma non più di tanto. C’è da ripetere Juventus Inter, interrotta per invasione di campo (pacifica) qualche settimana prima. L’Inter aveva avuto il 2 a 0 a tavolino ma la Caf accolse il reclamo dei bianconeri che chiedevano di rigiocare. Angelo Moratti ridicolizzò l’intero calcio italiano mandando in campo la Primavera. Sandro andava ancora a scuola, quel giorno, all’uscita dopo la campanella, trovò un taxi che lo attendeva per portarlo a Torno. I ragazzini nerazzurri persero 9 a 1, Sivori maramaldeggiò mettendola dentro sei volte. Ma alla fine anche il comunale di Torino rivolse un applauso al giovincello che aveva giocato la sua prima partita in serie A, che aveva messo dentro il rigore per l’Inter e che aveva un nome pesante a Torino, anche per l’altra sponda.

Benito Lorenzi all’inizio, Giuseppe Meazza per i primi calci con l’Inter. Per raccontare la storia di Mazzola servono ora altri due personaggi memorabili, le cui gesta in nerazzurro e le cui vite ad un certo punto si aggrovigliano in un nodo che il tempo non potrà più sciogliere.

Il primo è Angelo Moratti, padre e presidente della squadra più bella e amata di sempre. Il patron nerazzurro era andato a Bologna a vedere le riserve l’Inter, Mazzola quel giorno fece un gol da urlo, da li in poi iniziarono le prime timide apparizioni in prima squadra. Ricorda Sandro “ Guadagnavo 40.000 lire al mese e in casa di soldi ce n’erano pochi, nonostante i sacrifici del mio patrigno, una persona eccezionale e di mia mamma. Dopo le prime partite da titolare mi chiamò la segretaria del presidente per il contratto. Moratti sapeva tutto di me e alla fine mi disse: 13 milioni di ingaggio vanno bene? Stavo per svenire. A casa, mia mamma mi disse: te capì mal, te se sunà come una campana”.

E' inutile che continui a dirmi che non e' pronto. Secondo me lo e' “, disse Moratti a Helenio Herrera. Risultato: Mazzola il giorno dopo doveva passare al Como in prestito. HH lo chiamò per chiedergli se si sentiva pronto di giocare la domenica dopo a Palermo. Il suo posto sarebbe stato in attacco, insieme ad Hitchens, se avesse fallito sarebbe tornato nella squadra delle riserve. Mazzola giocò, e pure bene.Alla fine il Mago lo coprì di complimenti mentre Sandro rimuginava tra di se “T'ho fregato, grande allenatore. Non ti sei neanche accorto che non ho giocato in attacco”. Appena rientrato a casa squillo' il telefono. Era lui: “Dimenticavo, mi disse, faro' di te un grande attaccante“.

Non diventò subito un idolo delle folle, anzi. “Quel magrettino lì se si chiamasse Brambilla sarebbe ancora all’oratorio”, “Quello lì ha solo il nome, di suo padre, il resto è fuffa”. “Quel fil di ferro non è da Inter”. Non era difficile sentire commenti del genere sugli spalti quando Sandrino vestì per le prime volte quella maglia così pesante. Se per scetticismo o invidia non è dato sapere ma quelle spalle ancora gracili ressero bene l’impatto di questi giudizi. La lezione di Benito Lorenzi risuonava nelle sue orecchie ad ogni minuto, Mazzola sapeva quali erano le sue possibilità, faceva orecchie da mercante e giocava. Era stato proprio Angelo Moratti ad imporlo in prima squadra, figuriamoci se poteva tradire la sua fiducia.

Helenio Herrera è il quarto ed ultimo protagonista della storia di Mazzola, quello che cielo gli mandò per cambiare il suo destino sul campo. Molti hanno scritto che il Mago non sapesse leggere le partite, ma per quello in campo c’erano Picchi e Suarez che facevano e disfacevano. Dove invece HH era inarrivabile era nell’intuizione geniale, nella visione di quello che nessuno poteva scorgere. Mazzola in regia era sciupato, quell’accelerazione devastante ed il dribbling di pura marca brasileira rischiavano di perdersi nelle zolle frequentate da avversari dotati quasi sempre più di muscoli che di talento. Nacque così Mazzola punta, seconda punta, trequartista, mezza punta, il nome importa zero, quel che conta è che lì in quella zona , in quel momento, grazie al visionario Herrera, iniziava a dettare legge uno dei giocatori più decisivi della storia del calcio nerazzurro e nazionale. E insieme a lui stava nascendo quell’Inter fantasmagorica ed arrogante che avrebbe dominato la scena mondiale fino al 1967.

Il rapporto tra i due proseguì negli anni così come era iniziato. Una domenica l’Inter stava giocando a Torino, la squadra era in difficoltà. Herrera chiama Mazzola vicino alla panchina e gli intima “da questo momento lei deve giocare tatticamente e non più tecnicamente” . Il Baffo rimase di stucco annuì e continuò a giocare allo stesso modo, segnando anche un bel gol. Alla fine Herrera era felice “Todo bien Sandro, visto che avevo ragione?

Da questo rapporto strano ma fortissimo nacquero 3 scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, un titolo di capocannoniere della serie A, gol da antologia come la doppietta nella finale di Vienna o quello dopo 13 secondi nel primo derby giocato (1963).

Il quarto scudetto arrivò qualche anno dopo. L’Inter non era più quella di HH ma diversi dei suoi giocatori erano ancora li. Nell’inverno del 1970 il Milan ed il Napoli volavano, l’Inter sconfitta sotto il Vesuvio era precipitata a 7 punti dai partenopei e a 6 dai cugini. L’andamento incerto della squadra era già costato la panchina ad Heriberto Herrera, sostituito da Giovanni “Robiolina” Invernizzi. Mentre si accendevano motori dell’aereo che li doveva riportare a Milano Facchetti, Mazzola e Bugnich si convinsero che il titolo non era ancora perso. Buttarono giù su un foglio la tabellina più famosa della storia dell’Inter. Quando i “grandi vecchi” la fecero vedere al Presidente Fraizzoli che sedeva poco davanti a loro la reazione fu sfiduciata “Scudetto? Figlioli miei andate, andate su, che fantasia figlioli miei, ma di che parliamo? Siamo a 7 punti dal Napoli e a 6 dal Milan, ma va là, dai“. Pochi mesi dopo proprio Mazzola segnò il 2 a 0 nel derby che voleva dire aggancio alla vetta della classifica, dopo la foglia morta di Mariolino Corso, e poi via verso l’11mo scudetto.

Il 3 luglio 1977 San Siro fu teatro della sua ultima apparizione in maglia nerazzurra. Era la finale di Coppa Italia, il Milan vinse 2 a 0 per salutare degnamente il Paron Rocco, anche lui all’ultima panchina rossonera, dopo aver rischiato la retrocessione in campionato. Rivera e Mazzola si scambiarono i gagliardetti per l’ultima volta da rivali, non da nemici. L’Italia era immersa nella canicola e nella paura del clima politico di quegli anni, Mazzola regalò la sua ultima maglia ad Aldo Maldera che poco prima aveva realizzato il secondo gol. La maglia più emblematica della sua carriera ad un milanista. Altri tempi, un altro calcio che Mazzola ha nobilitato fino in fondo, in campo e fuori, con la maglia nerazzurra. Quei colori che non ha mai abbandonato e che ancora oggi lo portano a pensare ed a ragionare da interista, come uno di noi, più di uno di noi. Poi ha precisato, ma quel “si nasce juventini come si nasce interisti, difficile cambiare” proferito all’annuncio dell’arrivo di Conte parla di lui e del suo interismo meglio di mille libri.


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