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Mario Corso, un genio a modo suo, una foglia che non è mai morta

Se la nazionale gioca a San Siro un’amichevole di preparazione ai mondiali, se riesci a realizzare un gol da fantascienza dopo diversi dribbling in un francobollo di terreno, se anche gli avversari si mettono ad applaudire e invece di esultare corri sotto la tribuna per mandare a quel paese il CT con un gesto dell’ombrello plateale, le ipotesi sono solo due: o sei matto come un cavallo o sei Mariolino Corso. Il racconto potrebbe anche finire qui, avendo già detto molto di uno dei giocatori più affascinanti che abbiano calcato i campi da gioco italiani con la maglia nerazzurra. Mario Corso era tutto fuorchè matto, era semplicemente un genio, e come tutti i geni la sregolatezza pretende la sua parte per esaltare tutte le altre doti positive del portatore sano.

A distanza di 50 anni ci sarebbe ancora da discutere su cosa fosse  Corso in campo. Aveva spesso la maglia numero numero 11 ma non era certo un’ ala, non era un attaccante, né un centrocampista. Un trequartista forse? No, anche questa immagine è riduttiva. Era tutto questo insieme, come solo ai grandissimi è permesso. Lo standard modello del fuoriclasse, ove si escluda Messi, richiede un fisico da bronzo di Riace e qualità eccelse in entrambi i piedi. Sarebbe stato troppo facile per Corso, fisico mingherlino e segaligno, propensione all’atletismo tale da meritarsi l’appellativo di “participio passato del verbo correre” da Gianni Brera. E un piede, un solo piede, il sinistro, perché con il destro Corso neanche saliva in treno. “Siamo stati sconfitti dal piede sinistro di Dio disse il tecnico di Israele dopo uno show di Mariolino condito con due gol. Quel sinistro, reso ancor più beffardo dal calzettone arrotolato fin sulla caviglia in onore del suo idolo Omar Sivori, al quale, tanto per capire il carattere, riservò un tunnel la prima volta che se lo trovò di fronte.

Quel sinistro che serviva come pennello o come stecca da biliardo, per dipingere le foglie morte più assassine o per mettere un compagno davanti alla porta con una rasoiata chirurgica. Un suo compagno di squadra, Carlo Tagnin disse in una intervista tempo fa che “quando Suarez era in forma eravamo sicuri di non perdere, quando era in forma Corso eravamo sicuri di vincere”.

Corso era arrivato all’Inter nel 1957, 9 milioni dell’epoca alla squadra del suo paese e 70 mila lire al mese per quel ragazzo dalle orecchie a sventola. Il suo primo allenatore nel veronese aveva intravisto da subito il dono di Mario sui calci da fermo, costringendolo a ore di punizioni dal limite al termine degli allenamenti.

Debuttò in nerazzurro senza ancora aver compiuto 17 anni, sei mesi dopo, nel novembre del 1958 l’esordio in serie A contro la Samp e la settimana dopo il primo gol a Bologna. Una storia lunga 17 anni, con oltre 500 presenze, quasi 100 gol e vincendo tutto quello che il calcio dell’epoca permetteva di vincere. La grande Inter di Helenio Herrera non sarebbe stata tale senza questo artista del pallone, senza il suo estro tra la metà campo e l’attacco che fece innamorare (calcisticamente parlando s’intende) donna Erminia, la moglie di Angelo Moratti, che soleva ripetere di non andare a San Siro solo per lui “ma se c’era lui ci andavo più volentieri, ero certa che mi sarei divertita”. Un rapporto con i Moratti che dava ai nervi a Helenio Herrera, abituato a primeggiare in tutto, anche negli affetti della presidenza. Anche per questo tutti gli anni lo metteva nella lista dei cedibili, tornandosene poi alla Pinetina con le pive nel sacco dopo che Moratti gli aveva fatto capire che non era il caso.

E non fu solo Helenio Herrera a dover sopportare la personalità di Mariolino. Le cronache dell’epoca raccontano che il suo omonimo Heriberto, arrivato sulla panchina nerazzurra qualche anno dopo, si trovò con la truppa in rivolta capeggiata proprio da Corso, fino all’esonero e alla sostituzione con Invernizzi che poi vincerà lo scudetto. Tra i motivi anche il fatto che Corso non gradisse troppo “allenarsi come e quanto Bedin.” Sornione, irridente ma anche decisivo come pochi. Il suo gol nei supplementari nella bella contro l’Indipendiente per la Coppa Intercontinentale del 1964, la foglia morta che dette il là alla rimonta contro il Liverpool l’anno dopo restano nella storia dell’Inter. Il suo anno d’oro fu il 1970-71, l’anno del sorpasso dopo essere precipitati a meno 7 dal Milan, impreziosito dal vero capolavoro del derby di ritorno con una punizione strana per lui, quasi rasoterra a fulminare i cugini e poco dopo a fare a sportellate con tale Gianni Rivera per lanciare il contropiede del 2 a 0 di Mazzola.

Quando l’epoca di Angelo Moratti finì e arrivò Fraizzoli, per Corso la vita si fece difficile. Il nuovo presidente decise di richiamare Helenio Herrera dopo anni di grigiore per lui e per l’Inter. Senza più la tutela presidenziale, Corso lasciò Milano per il Genoa. Sembrava la fine, ma anche qui il suo genio pretese l’ultima parola. L’ultimo scherzo lo riservò proprio ai nerazzurri, a Marassi, segnando ai suoi ex compagni un gol addirittura di testa, la beffa più incredibile per uno come lui che la testa la usava solo per pensare calcio.

Mario Corso ci ha lasciato stamani. I tifosi nerazzurri lo salutano con una promessa,  le sue foglie morte non finiranno mai di rinnovare e rallegrare il ricordo del suo genio. Ciao Mariolino

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