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Razzismo: gli interisti veri sono così, una maglia per Rayem

Quando il razzismo torna a riempire le pagine della cronaca è sempre un pessimo segnale. ”Ci abbiamo fatto il callo” è la prima risposta che ci sparano in faccia al solo accennarne, come se l’abitudine annientasse le difese di una intera società contro un cancro malvagio. E come per  ogni tumore,  la medicina migliore è innanzitutto parlarne, cercare di capire per provare a curare.

L’Inter in questi giorni è finita sulle pagine di tutta la stampa italiana ed europea per i fatti di stampo razzista di Cagliari contro Lukaku  e per la successiva lettera della Curva Nord. Nessuno ha ricordato la campagna BUU (Brothers Universally United)  lanciata dalla società dopo i fatti di Inter Napoli dello scorso dicembre, tutto il mondo  ha invece rivolto la sua condanna alle parole della curva, accomunando spesso in quei concetti privi di senso tutta la tifoseria interista, e di riflesso la società. Nessuno ha detto che se il rigore lo avesse calciato Sensi o Skriniar, quei tifosi del Cagliari che si sono resi protagonisti dell’episodio (nessun altro, si badi bene)  non avrebbero avuto modo di ricordare a tutto il mondo che loro per primi discendono dalle scimmie. L’offesa per loro non era il rigore concesso all’Inter, era il colore della pelle di chi si apprestava a battere quel penalty, niente a che vedere con il calcio, come del resto la lettera della curva nerazzurra.

Nelle stesse ore un altro fatto ha colpito la sensibilità di molti. La notizia di Rayem, bimbo di colore di tre anni, colpito a Cosenza con un calcio nello stomaco dal genitore di un altro bimbo della stessa età. Il piccolo nordafricano ha avuto la colpa di essersi avvicinato al passeggino del bimbo bianco, italiano, forse per scambiare un sorriso, forse per fare amicizia.  “Cosa ho fatto di male?” chiede il bimbo a suo padre da giorni. L’ospedale ha curato la ferita al suo fisico, per la ferita della sua anima non ci sono medici.

Due fatti che sembrano slegati e lontani ma che sono figli della stessa cultura di intolleranza, di rifiuto dell’altro. Ma forse c’è anche di peggio. Il clima degli ultimi tempi ha innescato l’idea che ogni mezzo di difesa dall’altro sia legittimo, quando chiunque sia entra nella mia sfera personale o  nella nostra dimensione sociale senza essere invitato, fosse anche solo per fare il suo lavoro o  per chiedere aiuto.

 Il calcio nello stomaco al bimbo di Cosenza e gli ululati scimmieschi a Lukaku non appartengono alla cultura e alla tradizione di grande civiltà degli abitanti della Calabria né a quella  dei cagliaritani, ma alle patologie di una minoranza ormai slegata dal pur minimo senso di  civiltà del vivere.

Neanche la stragrande maggioranza dei tifosi interisti si riconosce nelle parole del tifo organizzato. La gente che popola San Siro sa che l’Inter nasce nel 1908 su un concetto di cinque parole che non è mai venuto meno nella sua storia: “noi siamo fratelli del mondo”. Inter Academy ne è una dimostrazione tangibile, portando aiuti, educazione, calcio,  in ogni parte del mondo dove i più giovani soffrono.

E se siamo fratelli del mondo siamo fratelli anche del piccolo Rayem.  Per questo Interdipendenza ha deciso di regalargli quanto abbiamo di più caro, la nostra maglia,  quei colori che in ogni stadio del mondo vogliono portare gioia, soprattutto ai più giovani, ai più piccoli, a quelli meno fortunati. Nei prossimi giorni contatteremo la sua famiglia per fargli avere questo piccolo omaggio.  E’ probabile che Rayem non conosca ancora quella maglia ed il significato di quei colori. Per ora gli sarà sufficiente  indossarla per sentirsi uno di noi, per sentirsi accettato e benvoluto anche se la sua pelle ha un altro colore.

La redazione di Interdipendenza

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