Beccalossi, una testa dispari che infiammò San Siro

di Mario Spolverini, pubblicato il: 12/07/2019

Aveva qualcosa in più rispetto a tutti, quel pizzico di genio folle e irrispettoso che ti fa emergere dalla massa, non per nulla il Becca si è sempre autodefinito una “testa dispari”, per mettere subito in chiaro che non era come gli altri.

E non a caso i suoi tre riferimenti nel mondo dello sport furono Omar Sivori, Gilles Villeneuve e John McEnroe. Beccalossi era un destro naturale, che per ammirazione nei confronti di Sivori si dedicò al sinistro con tanto impegno da riuscire ad usare entrambe le estremità con la stessa naturalezza. Per andare ad incontrare il suo idolo sulla Ferrari a Monza si dette malato e saltò l’allenamento. Il giorno dopo però sui giornali comparvero le foto di lui al volante della rossa numero 27. Cazziatone della società, le multe ancora non andavano di moda e tutto finì lì.

Fu McEnroe invece ad essere fulminato dal talento del 10 nerazzurro dopo averlo visto all’opera a San Siro. Attrazione reciproca “ero un suo tifoso” ha detto in una intervista qualche tempo fa, “uno con la testa dispari come me, mica potevo tifare Lendl”.

Era stato un ex nerazzurro, Mario Mereghetti, a segnalare Evaristo all’Inter quando giocava a Brescia, dopo averlo visto bersi mezza squadra avversaria, 5 dribbling uno dietro l’altro per arrivare solo davanti al portiere…e metterla fuori. 

Nei mesi successivi, durante uno dei lunghissimi ritiri che Bersellini imponeva in occasione delle partite di coppa (dal venerdì al giovedì successivo), sollecitati da Spillo, la squadra si radunò per vedere la sintesi di Ascoli-Brescia, proprio per ammirare Evaristo. Corner per le rondinelle, il Beck va sicuro ed elegante, breve rincorsa e destro mollato alla bandierina anzichè alla palla. Cadde la bandierina e caddero dal ridere gli interisti radunati davanti alla TV. Altobelli portò le stimmate di quell’errore dell’ amico a lungo, finchè Beccalossi non arrivò davvero in nerazzurro.

Quando arrivò la chiamata dall’Inter, raggiunse Milano accompagnato dal papà con la Fiat seicento e l’emozione che gli stringeva la gola; appena vide una carta intestata con il logo dell’Inter, firmò quella. Era il contratto, per fortuna, ma ancora doveva essere scritta la cifra dell’ingaggio. “Avevo troppa paura che ci ripensassero” ha rivelato qualche anno fa Evaristo. 

Ha sempre avuto un rapporto strano con i contratti. Nel 1982 Evaristo era ormai uno dei boss, lo scudetto conquistato con Bersellini in panchina ne aveva fatto l’idolo vero di San Siro. Andò in sede per discutere il rinnovo del suo rapporto con l’Inter, convinto di strappare il raddoppio da 50 a 100 milioni. La discussione con Mazzola e Beltrami durò poco, i due dirigenti lo dovettero lasciare per qualche minuto per un altro impegno. Nell’attesa, il Becca dette una sbirciatina ai fogli sulla scrivania: c’era l’elenco degli stipendi di tutti gli altri giocatori, compresi tutti i campioni del mondo, Spillo, Oriali, Bordon, Marini. Nessuno superava i 70 milioni. Evaristo ripose le intenzioni bellicose e si accontentò di un ritocco. Solo molto tempo dopo venne a sapere che quel foglio, con cifre non proprio esatte, lo avevano volutamente lasciato sulla scrivania Mazzola e Beltrami.

L’arrivo del Beck all’Inter coincise con una tournee in Cina, con la prima partita in terra d’oriente il giorno dopo il lunghissimo viaggio ed una notte insonne, una vera goduria per chi sognava solo le vacanze. In quel viaggio era presente anche Sandro Mazzola, che si era già ritirato un anno prima ma che in Cina volevano in campo. Il Baffo giocò in quell’occasione il suo ultimo tempo in maglia nerazzurra, poi Bersellini chiamò il cambio, fuori Mazzola dentro Beccalossi, felice come un bambino per l’esordio ma costretto ad uscire subito per dolori al fegato che lo colpirono appena messo piede in campo. 

Davanti ad un Bersellini infuriato, il Beck basò la sua arringa difensiva sul fatto che la notte precedente Canuti e gli altri lo avevano sottoposto al rito di iniziazione a suon di birra, tanta birra, troppa per uno sbarbatello come lui.

Il rapporto con Bersellini e con i compagni di squadra merita un paragrafo a parte. Il mister non era tenero con nessuno, non a caso lo chiamavano il Sergente di Ferro. Con il Beck meno che con gli altri, vista la sua innata repulsione agli allenamenti intensivi e l’amore dichiarato per le Marlboro. Nonostante ciò, il mister era costretto spesso a far finta di non vedere, da autentico papà attento e lungimirante, sapeva di avere alle mani l’erede di Suarez e dunque faceva di necessità virtù. Quasi sempre, perché alla Pinetina nessuno ha dimenticato la volta in cui un Bersellini esasperato mise Beccalossi in ritiro individuale per 10 giorni per rimetterlo in riga.

E i compagni di squadra? “Mi sopportavano con cristiana rassegnazione. Dicevano, guardandomi e sapendo la mia volubilità, oggi giochiamo in dieci o in dodici… Quelli a cui sono più riconoscente sono quelli che correvano anche per me. Oriali, un campione, ogni tanto mi passava vicino e mi sibilava “Ci stiamo facendo il culo per te, vedi di inventarti qualcosa e di farci vincere”. E poi Beppe Baresi , che correva per tre, e Marini. Io ho avuto da loro più di quanto sia riuscito a dare. Loro facevano i sacrifici durante la settimana, compresa la domenica, e io, quel giorno santificato, li dovevo ricompensare. Spesso ci riuscivo e loro mi volevano bene per questo”.

Con Spillo Altobelli più che una coppia erano due gemelli, in campo e fuori. Nel rettangolo verde a suon di assist e gol, fuori dominava l’amicizia, l’ironia, lo sfottò. Evaristo ricorda la perfidia con cui Spillo parlò ai giornalisti dopo una partita di scarsa vena in cui Evaristo gli aveva messo sui piedi assist a ripetizione e lui aveva sbagliato di tutto e di più. . “Ho ricevuto pochi palloni giocabili” dichiarò Altobelli, facendo chiudere la vena all’amico fraterno.

Ma non con tutti erano rose e fiori. Hansi Muller arrivò all’Inter dopo i mondiali del 1982, elegante e carismatico come solo certi tedeschi sanno essere. Beccalossi non ha mai nascosto la sua difficoltà a stare in campo con lui, che si metteva al centro costringendolo a spostarsi venti metri più avanti, in pratica lo obbligava a fare la seconda punta con le spalle alla porta. In una intervista al Corriere dello Sport del 2016 Beccalossi ha confessato: “ Non lo sopportavo… ma aveva ragione lui, in fondo. Io allora avevo la testa dispari. Avrei dovuto scegliere una zona del campo tutta mia e giocare. Tanto ero il più forte, col pallone tra i piedi…”. Al termine di quella intervista Beccalossi precisava però che le difficoltà erano solo di campo e che con Muller erano e sono tuttora amici. Ma proprio in quei mesi nacque la storica frase di un Becca incazzato dopo aver messo al tedesco 10 palle gol sui piedi tutte regolarmente sbagliate: “E’ meglio giocare con una sedia che con Hansi Muller, perché con la sedia quando gli tiri la palla addosso ti torna indietro!”

Due partite di Evaristo sono rimaste intatte nella memoria dei tifosi. Quella che lo consegnò al mito fu il derby dell’ottobre 1979. Una giornata nera per il calcio italiano segnata dal derby di Roma nel quale morì Vincenzo Paparelli, 33 anni, tifoso laziale colpito alla testa da un razzo scagliato dalla curva giallorossa che attraversò tutto l’Olimpico. Sotto una pioggia scrosciante, Beccalossi mise a segno una doppietta rimasta leggendaria, soprattutto per il gesto tecnico del primo gol, un piattone su cross di Pasinato con la palla che fini la sua corsa sul secondo palo di Albertosi impotente. Poi nella ripresa il Beck fece un po’ più fatica a seguire Muraro scatenato in contropiede, ma arrivò puntuale sul suo assist a due metri dalla riga di porta.

La leggenda narra che al termine di quella partita Il Beck abbia salutato Albertosi con la frase che lo ha accompagnato per tutta la vita “Sono Evaristo, scusa se insisto”. “Vecchia storia, carina,- ha commentato il Beck mi ci diverto anche io a ripetere quella frase, ogni tanto. Solo che non l’ho mai detta ad Albertosi a fine partita, quel famoso 28 ottobre 1979, come vuole la leggenda. È stato qualche mio compagno di squadra, poi però me l’hanno attribuita e a questo punto me la tengo”.

La seconda partita che i tifosi nerazzurri non dimenticheranno mai, almeno quelli di una certa età, è l’andata del primo turno di Coppa delle Coppe del 1982 contro lo Slovan Bratislava, un 2 a 0 con gol di Altobelli e Sabato ma diventata storica per i due rigori sbagliati da Beccalossi. Una piccolo dramma personale diventato oggetto di culto soprattutto grazie a Paolo Rossi, il comico di provata fede nerazzurra, che portò quel momento in uno dei suoi più famosi spettacoli teatrali con una ricostruzione ironica e toccante allo stesso tempo.

Sul primo rigore, ha messo in prosa Paolo Rossi. “Beccalossi guardò tutto lo stadio negli occhi e disse: “Lo tiro io…” e io pensai con tutto lo stadio: questi sono gli uomini veri. Prese la palla e la mise sul dischetto del calcio di rigore. Lo fece con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe mai e poi mai sbagliato. E sbagliò. E io pensai: per me resta un uomo». Cinque minuti all’Inter assegnano un altro rigore. “ E mentre tutto lo stadio pensa che sarebbe meglio di no, lui mette «la palla sul dischetto del calcio di rigore con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe risbagliato. E risbagliò. E io pensai: per me resta sempre un uomo. Un po’ sfigato ma pur sempre un uomo.”

I rigori sbagliati contro gli slovacchi venivano dopo un’estate resa infuocata dagli azzurri campioni del mondo ma senza Evaristo. Il Beck aveva avuto una stagione strepitosa, l’opinione pubblica spingeva forte per la convocazione del 10 nerazzurro. Quando Bearzot rese noto l’elenco dei convocati per la Spagna ci furono raccolte di firme di protesta contro la Federcalcio e sit in di protesta. Il tecnico friulano aveva il suo gruppo e lo avrebbe difeso fino alla fine. Restarono fuori lui, forse il miglior giocatore italiano di quell’anno e Roberto Pruzzo, il goleador di quella stagione. La delusione di Beccalossi ovviamente fu enorme. Commentando quell’episodio, Evaristo ha usato le armi della sincerità e dell’ironia: “L’avrei ammazzato, Bearzot. Poi l’ ho capito: se mi convocava, l’opinione pubblica avrebbe spinto perché giocassi titolare. Il c.t. aveva il suo gruppo, non poteva permettersi altri casini, poi io non ero proprio il suo tipo di giocatore. E sono talmente sfigato che tutti sanno come andò a finire: l’Italia vinse il Mundial e io, che non vedevo l’ora di dirgliene quattro, a Bearzot, zitto e a casa”.

Una testa dispari a suo modo, ma anche una persona obbiettiva e mai sopra le righe, almeno fuori dal campo, almeno quando non aveva il pallone tra i piedi. Perché quando ce l’aveva, disse Beppino Prisco, “Lui non giocava con il pallone, era il pallone che giocava con lui. Lui non lo calciava, l’accarezzava riempiendola di coccole”.


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